Alimentazione sostenibile: il risparmio (virtuoso) è garantito

Alimentazione sostenibile. Abbiamo avviato una nuova sezione del nostro blog, grazie alla collaborazione con la biologa nutrizionista Francesca Sirianni. Quello che stai per leggere è il primo post e come argomento iniziale ci siamo posti una domanda: è possibile risparmiare mangiando? Non stiamo parlando di risparmio economico tout court, ma di risparmio in termini di sostenibilità, in un approccio rivolto all’equilibrio nutrizionale che rispetti anche il nostro pianeta. Un tipo di approccio multi sfaccettato: economico, medico, sociologico, ambientale.

Negli ultimi due decenni la questione della sostenibilità è una delle più delicate, discusse e spesso fraintese. Molte le informazioni reperibili su web e riviste specializzate, e apprezzabile è l’effetto sulle masse degli studi scientifici che sempre più si rivolgono verso l’argomento dell’alimentazione sostenibile.

Sensibilizzare i cittadini sui temi ambientalisti non è infatti cosa facile, dopo decenni di consumismo alimentare giustificato da abitudini post belliche che incoraggiavano all’abbondanza. Una cultura dell’eccesso che forse ci ha resi pigri di fronte alla sfida quotidiana del portar cibo in tavola, che ha inoltre creato un distacco tra il consumatore e i processi produttivi tradizionali, privilegiando quelli industriali che assicurano prezzi più contenuti.

Ma questo davvero crea risparmio? Sembra proprio di no: le produzioni industriali dovrebbero fare un passo in avanti e considerare con attenzione tutto il ciclo del prodotto perché non è detto che il prezzo più basso finale sull’etichetta “ci faccia bene”. Ne sono convinte le tante, tantissime associazioni o cooperative nate appositamente per il recupero dell’identità del cibo e di chi lo consuma. Pensiamo ai presidi Slow Food o ai sempre più numerosi gruppi GAS, ma anche a quelle contro lo spreco alimentare. Cibi ad alto contenuto di zuccheri e grassi (per non parlare di conservanti chimici) sono stati padroni indiscussi delle nostre tavole negli anni Ottanta e Novanta, con seguente dispiego di risorse per combattere malattie e disturbi alimentari (vedi obesità o intolleranze) e un aumento vertiginoso di rifiuti che, ricordiamolo, non venivano differenziati. Un circolo vizioso e poco virtuoso.

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Il problema obesità

Una parola in più la vogliamo spendere per l’obesità che, come ha affermato uno studio pubblicato da Jama Pediatrics, è “socialmente contagiosa”: se si vive in un posto con molte persone sovrappeso il rischio di diventarlo è molto più alto e vale sia per gli adulti che per i bambini. Secondo i dati dell’OMS, questa sindrome si è praticamente raddoppiata dal 1980 al 2010, contando il 35% della popolazione mondiale in sovrappeso e l’11% in obesità. L’aumento eccessivo del peso rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica a livello mondiale, sia perché la sua prevalenza è in costante e preoccupante aumento non solo nei Paesi occidentali ma anche in quelli a basso-medio reddito, sia perché è un importante fattore di rischio per varie malattie croniche, quali diabete mellito di tipo 2, malattie cardiovascolari e tumori.

In termini di costi alla collettività nel mondo (quindi zero risparmio), l’obesità occupa il terzo posto dopo fumo di sigaretta e guerre e terrorismo coinvolgendo, ormai, oltre 2 miliardi di adulti e bambini. Secondo un rapporto presentato al comitato per la food security della Fao dall’organizzazione no profit Ipes-Food «senza malnutrizione il Pil del mondo sarebbe più alto dell’11% mentre l’obesità costerà 760 miliardi di dollari entro il 2025». Una contraddizione, appunto, da correggere al più presto.

Negli ultimi anni, fortunatamente, le cose stanno un po’ cambiando: una nuova coscienza alimentare ha preso fortemente piede, aprendoci gli occhi su questioni etiche e salutistiche.

Non sempre le informazioni reperibili soprattutto in rete sono affidabili, ma il dibattito e i confronti nati su queste basi dimostrano che l’interesse è vivo e la voglia di sapere cosa riporta l’etichetta apposta al cibo è in costante crescita. Di conseguenza, anche sapere da dove provengono i cibi derivati da allevamenti o da pesca acquista sempre più importanza. Il benessere dell’animale, dapprima considerato rilevante solo da chi sceglieva una dieta vegetariana/vegana, diventa benessere del consumatore. Così come è preferibile sapere come è stato coltivato un cereale, un frutto o una verdura: informazioni che sempre più vengono tutelate e rese obbligatorie (più o meno) da parte del legislatore stesso.

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Comportamento virtuoso e alimentazione sostenibile

E allora, cosa possiamo fare fin da subito per adottare un’alimentazione sostenibile? Iniziamo acquistando prodotti freschi, di stagione e il più possibile di origine locale: meglio poter tracciare l’origine di carni, pesci, legumi, prodotti ortofrutticoli limitando le quantità a ciò che effettivamente può bastare al proprio bisogno e variando la dieta. L’ideale sarebbe scegliere prodotti certificati biologici, per i quali non siano stati impiegati pesticidi, ormoni, antibiotici, OGM. Per i cereali sono da preferire quelli integrali, meglio se da coltivazione biologica, poiché gli altri hanno un maggior rischio di contaminazione da inquinanti e pesticidi in quanto il cereale non viene privato delle sue formazioni esterne.

Tutto ciò ci porta a valorizzare cibi della nostra tradizione e le biodiversità, e in alcuni casi anche al recupero di cibi dimenticati (pensiamo ai grani antichi).

Aderire ai Gruppi d’Acquisto Solidale (GAS) è un altro modo di tutelare la propria salute, i piccoli produttori e commercianti e l’ambiente. Nati in Giappone all’inizio degli anni Settanta con il nome Teikei, questi gruppi acquistano collettivamente prodotti locali e di stagione, che vengono forniti periodicamente e direttamente da chi produce o alleva. Oltre a conoscere quello che si mangia, il vantaggio è di poter influenzare la produzione stessa, variando le richieste e il potere d’acquisto, e di entrare in contatto con altre persone con cui confrontarsi e crescere.

Aumentare l’educazione alimentare è infatti di vitale importanza, per impostare un futuro più responsabile e potenzialmente più sano.

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